Scheda

Abinum Ica (Ika, Iko) Isacco Vladimir



Didascalia:

Sant'Angelo in Vado, primi mesi del 1943, la famiglia Abinum. USC Shoah Fondation.

Famigliari compresenti: moglie e due figli
Coniugato/a con: Zaraya Laura
In Italia a: Sant'Angelo in Vado (PS)
In Italia da: Spalato, Jugoslavia
Percorso di internamento: Castellamonte (AO, poi TO) dal 12 dicembre '41 al 31/1/'43; Sant'Angelo in Vado (PS) dal 2/2/'43 al 2/12/'43, giorno della fuga.
Ultima località o campo rinvenuti: Sant'Angelo in Vado (PS)
Deportato: no
Ucciso in Italia: no
Dopo la fuga e/o la liberazione a: Firenze; San Paolo del Brasile.
Fonti:

ASP; A1; A2; ASCSAINV; APz; Lusso; CampiF; GiLevi; ASCCast; Geni, S.Fond;Bad.


Presente fasc. in ASP:
Profilo biografico:

Isacco (Ica) Abinum, cittadino di Belgrado, è detto “fabbricante” e in seguito commerciante-rappresentante. Dalla testimonianza rilasciata dal figlio in forma di intervista per la Shoah Fondation veniamo a sapere per la precisione che si occupava di cosmetici forse prodotti in loco, visto che viene definito “industriale”.  

La traccia biografica è costruita innanzitutto sulla base dei documenti scritti, mentre l’intervista, acquisita solo nel 2018, viene lasciata per ultima.  

Abinum viveva a Belgrado con la propria famiglia composta dalla moglie e da due figli. Nel ’41, con l’occupazione italiana e tedesca della Jugoslavia, la loro vita viene sconvolta. La spartizione del territorio pone sotto il controllo degli ustascia croati un’ampia area territoriale dove ben presto iniziano massacri di enormi proporzioni nei confronti dei cittadini di religione cristiana ortodossa. Viene poi la caccia ad ebrei e zingari. Belgrado come tutta la Serbia è governata dalle forze tedesche. Anche di qui, come in Croazia, ben presto gli ebrei si danno alla fuga.   

Con documenti falsi per sfuggire ai sicari di Ante Pavelic, Ica si dirige verso la costa e raggiunge Spalato, posta sotto controllo italiano. Quando la presenza di rifugiati diventa troppo forte, le autorità decidono di internare gli ebrei in Italia. La vicenda di alcuni di loro, come quella di Joseph Konforty e di un gruppo di oltre trenta slavi rifugiatisi in Romagna, è stata documentata, come si può vedere alla fonte “Lusso”. Anna Pizzuti calcola che gli ebrei stranieri passati per Spalato e internati in Italia siano stati milleduecentotrenta.  

Nella richiesta che Ica Abinum rivolge al Ministero degli Interni nel gennaio ’42 per ottenere il sussidio, si legge che è stato internato a partire dal 12 dicembre ’41.  

Dallo studio di Giorgina Levi sul caso degli ebrei ristretti nel territorio di Aosta ricaviamo testimonianze dirette sul trasporto di Abinum. Per oltre 200 ebrei jugoslavi, il viaggio inizia l’8 dicembre 1941 da Spalato, a mezzanotte. Imbarcati su una nave, sono condotti nell’oscurità più totale fino a Trieste dove li attende il treno. Per garantire la sorveglianza, le autorità comunicano alle forze dell’ordine il previsto arrivo a Ivrea. Qui giunto, il gruppo viene smistato con i “torpedoni” nei vari comuni dell’allora provincia di Aosta.  

Questa era stata istituita nel 1927 a spese della provincia di Torino su un territorio molto più vasto di quello della precedente sottoprefettura. Le ragioni erano politiche e di sicurezza: i cittadini di lingua italiana dovevano prevalere su quelli di lingua francese. Tale idioma fu soppresso anche nei nomi dei luoghi: Saint-Vincent divenne San Vincenzo della Fonte, mentre Châtillon si trasformò in Castiglion Dora.  

Ica viene destinato al comune di Castellamonte, allora nel territorio di Aosta, ora di Torino. Abita in casa privata in via Carlo Botta. Il Prefetto di Aosta, Signorelli, in data 11 febbraio ’43, afferma che Ica Abinum fu internato in Italia “con altri ebrei provenienti dalla Dalmazia” sulla base dell’Ordine ministeriale N. 63566/442 del 21 agosto 1941.  

L’internato ottiene il sussidio “regolare” previsto nel suo caso. Presso l’archivio del comune sono conservati i rendiconti di quanto ha ricevuto lungo tutto l’anno 1942 per il vitto (8 lire al dì) e per l’alloggio (50 lire mensili). 

Il suo nome compare assieme a quello di trentatré ebrei jugoslavi, fra i quali nel marzo ’42 si conta un caso di suicidio. Bas Giovanni, farmacista, assume una forte dose di veronal - che forse ha portato con sé - dopo aver saputo che i genitori hanno fatto lo stesso gesto estremo a Sarajevo. Non regge al dolore. Il Prefetto notifica al ministero che «fu assistito mediante ricovero nel locale Ospedale, ma inutilmente.»  

Con una lunga missiva datata gennaio ’42, il questore Labbro raccomanda ai carabinieri di tutto il territorio interessato di sorvegliare affinché i rapporti della popolazione con gli internati ebrei non siano troppo cordiali. E’ avvenuto infatti che ci siano state occasioni per familiarizzare. Ricorda che gli internati sono in prevalenza serbi e che persino nei confronti degli ebrei italiani sono state istituite “severe leggi razziali che ne limitano i diritti e li sottopongono a severe misure restrittive”. 

Da parte ebraica non manca chi si preoccupa di prestare aiuto agli internati. Ci sono la Delasem di Genova, gli Olivetti di Ivrea e c’è l’ingegner Salvatore Luria che lavora presso la stessa Olivetti.

E’ documentato nel settembre ’42 l’invio da Genova di una somma di cui si avvarranno otto internati bisognosi. Fra questi non risulta Ica.  

Nel gennaio ’43 egli viene ricoverato in ospedale e nello stesso mese giunge il telegramma ministeriale che dispone il suo trasferimento in Provincia di Pesaro, dove potrà riunirsi alla famiglia. Isacco lascia la sede in cui è vissuto per oltre un anno, con un foglio di via che gli concede quattro giorni di viaggio per presentarsi alla nuova questura. 

Per i correligionari rimasti nel territorio precedente si profila l’eventualità di un trasferimento coatto. Da più parti si preme affinché vengano allontanati e inviati in campi di concentramento (Ferramonti di Tarsia), come si legge in una nota del Prefetto di Aosta, Signorelli, al Ministero dell’Interno in data 1° marzo ’43, visibile nel sito Campi Fascisti. 

Ica può riunirsi alla famiglia a Sant’Angelo in Vado, dove lo raggiungono dall’Albania la moglie Zaraya Laura e i due figli minorenni Violetta Giovanni. Nei rendiconti dei sussidi ricevuti nel comune, le erogazioni includono le quote per ciascuno di essi a partire dal mese di febbraio. Le contribuzioni cessano il 15 dicembre ’43 “per allontanamento”.  

La fuga in realtà è segnalata in precedenza, come sappiamo da una nota di ricerca dei carabinieri di Urbino del giorno 7 dicembre, dove il nome di Abinum compare assieme a quello di Vally Geduldinger e di Enrico Zader, ebreo non internato, fuggito dalla vicina Mercatello sul Metauro. Vi si dice che sono fuggiti il 2 dicembre. 

Il rintraccio da parte della tenenza dei Carabinieri di Urbino è segnalato scrupolosamente alle sedi di Pesaro, Urbino, Arezzo, Rimini, Fano, Fabriano, Cagli, Pennabilli e stazioni dipendenti, ma senza successo. Il capo della provincia di Pesaro comunica al Ministero dell’Interno che l’allontanamento avvenne quando ci fu sentore dei provvedimenti presi nei confronti degli internati ebrei. La ricerca del fuggiasco Abinum coinvolge anche il territorio di Firenze se è vero che alla data del 24 gennaio 1949 la questura fiorentina, che intende chiudere la pratica del rintraccio, chiede se tale famiglia sia ancora ricercata.  

Nel 2018 veniamo a sapere da Geni che gli Abinum sono emigrati a San Paolo del Brasile dove la figlia Violetta (ora Ivete) è ancora vivente, mentre Giovanni (ora Michel) muore nel 2005. La madre Laura era morta nel 1961, il padre Ica, il cui nome è scritto “Vladimir Iko di Moshe Misha”, nel 1977. 

L’intervista a Michel (Giovanni) Abinum conservata presso l’USC Shoah Foundation Institute Visual History Archive, viene rilasciata nel gennaio del 1998 quando l’intervistato ha settant’anni e vive a San Paolo del Brasile con la famiglia: la moglie Janete, i figli Maiko e Patrick e i nipoti Daniela e Marcelo. La sorella Ivete Vida (Violetta), coniugata Galfi, vive nella stessa città. 

Michel racconta che ha cambiato numerose volte identità sia nel nome che nel cognome: Giovanni, Michel, Jelkic, Zaja (albanese). Il lavoro dei genitori si svolgeva nel settore dei cosmetici, prodotti dal padre. La condizione economica era discreta. L’infanzia trascorsa a Belgrado è stata molto serena, non c’era antisemitismo, l’integrazione era perfetta, non esistevano quartieri ghettizzati per gli israeliti. Michel andava a scuola presso strutture pubbliche, ha potuto studiare fino ai 12 anni (1° anno del ginnasio). 

La vita religiosa domestica era molto liberale, in casa non si mangiava kasher, anche se si realizzavano ricette particolari per tradizione. Stessa cosa per le ricorrenze annuali. La loro identità religiosa prebellica può essere definita di ebrei non osservanti e non praticanti. Quella del dopoguerra, per Michel, di non affiliato. 

La famiglia della madre Laura Zaraya, nativa di Salonicco, era più osservante. In Grecia negli anni intorno alla prima guerra mondiale era presente un coacervo di nazionalità. Chi poteva studiava in collegio, come avviene per Laura che apparteneva a una famiglia con buone possibilità. Aveva studiato fra l'altro anche il francese e l'italiano, lingue che parlava perfettamente. Invece non se la cavava molto bene con lo jugoslavo, pertanto in casa si esprimeva prevalentemente in francese, italiano o latino. 

In seguito, i nonni materni Haim Zaraya e Paola Scioelli si erano trasferiti a Skopje, città situata nel sud della Jugoslavia, sulla rotta tra Belgrado e Atene. Questo ramo della parentela conobbe una tragica fine: dalle 12 alle 15 persone deportate o uccise. 

Il nonno paterno si chiamava Moses (Moshe), la nonna Vida o Ivete (il suo cognome da nubile era Altaras). La nonna, della quale il nipote parla con commossa ammirazione e affetto, fu deportata da Belgrado nel novembre ’41 e non fece più ritorno. 

In famiglia non si sapeva molto circa la persecuzione razziale né tanto meno in merito alla volontà hitleriana della soluzione finale, tuttavia verso il 1939/’40 il padre Isacco propone di trasferirsi in Turchia. Alla mamma dispiaceva lasciare la casa dove aveva fatto degli abbellimenti interni, così a causa delle tende nuove e dei tappeti, dice con un sorriso indulgente Michel, sono andati incontro ad anni travagliati, separazioni e pericoli di ogni genere. In ogni caso, conclude, avrebbero perso tutto ugualmente. 

Nell’imminenza dell’invasione tedesca, si tengono a Belgrado grandi manifestazioni di protesta. Tuttavia l’attacco nemico è ben presto vittorioso: il paese soccombe in pochi giorni nell’aprile 1941. Durante i bombardamenti gli Abinum si nascondono in un rifugio sotto una costruzione, ammassati assieme ad altri concittadini, con pochissimo spazio per le famiglie. Vengono appena separati da una tenda, nel fumo del carbone necessario per riscaldare. Tredici giorni così, poi la costruzione viene colpita, rischiano di morire tutti quanti. Allora fuggono cercando di allontanarsi da Belgrado.  

Nella capitale le deportazioni degli ebrei da parte nazista iniziano presto: da maggio ad agosto ’41 tocca agli uomini, nel novembre ’41 alle donne che erano state concentrate nei pressi di Belgrado, a Zemun. (Qui nell'ex area fieristica sorse ad opera dei nazisti il campo di concentramento di Sajmiste - uno dei più grandi del paese - per rom, ebrei e politici).  

Tra le deportate, oltre alla nonna paterna, anche una zia paterna con la figlioletta dell’età di Michel. Anche loro non torneranno mai più. Michel ricorda con grande commozione anche la famiglia Levì, in cui era presente un amico dalle abilità pittoriche eccezionali. Saranno tutti deportati e uccisi.  

Il padre Isacco decide di fuggire nella zona controllata dagli italiani: Split (Spalato) in Croazia. In quel momento erano i croati che ammazzavano i serbi. Il fuggiasco utilizza documenti falsi con nomi sloveni. Le carte gli sono costate seimila denari (equivalenza di allora: un dollaro=50 denari). La famiglia non fugge con il padre per varie ragioni che il testimone cerca di ricostruire. Prima di tutto la mancanza del denaro necessario. Il lavoro è stato interrotto, tutto è sotto sequestro. Inoltre non si vuole rischiare di essere arrestati tutti e quattro. La mamma pensa di mandare avanti il marito e di riunirsi a lui in un paio di mesi. 

Per non insospettire, Isacco aveva portato con sé ben pochi soldi, così ha subito bisogno di aiuto. A Spalato viene soccorso da uno sloveno che lo prende in casa propria e gli dona il denaro necessario. La moglie dello sloveno in questione era la figlia di un professore di Michel, Svetislav Felker. 

Intanto Laura vende quel che può della loro industria e affitta l’appartamento di via Ovanova a Belgrado. Quanto a loro tre, madre e due figli, per un mese si nascondono nella casa di un ufficiale ortodosso che pare non sappia della loro appartenenza religiosa.  

In seguito vengono obbligati dalla polizia ad andare in un campo di raccolta, un ex campo sportivo (il nome suona Tash Maida). Devono indossare la stella di David e portare sempre con sé i documenti, pena la fucilazione. Sono sorvegliati a vista dai tedeschi. 

Michel nel luglio ’41 compirà 13 anni. Un accenno al Bar Mitzva e al fatto che al primogenito veniva sempre aggiunto il nome Bohor.  

I mesi dell’autunno seguente (1941) saranno molto difficili, l’inverno gelido. Tanti di coloro che vivono nel campo muoiono per il freddo. Alla fine dell’anno chi può tenta la fuga verso la Dalmazia. Michel è irrequieto, non sopporta di stare chiuso in un campo di concentramento, così la madre grazie all’aiuto del professor Felker, definito persona buonissima, si procura documenti falsi, un passaporto in cui risultano italiani. Per fuggire vengono aiutati anche da una donna di nome Luci Piade. 

Non possono tornare a Belgrado dove tutti gli ebrei vengono deportati, né prendere un treno, così Laura si rivolge ai contadini e con un carro trainato da buoi attraversa le montagne: è il 13 dicembre 1941. Neve e freddo li perseguitano. Decidono di spingersi a sud della Serbia, raggiungono Kursumlja verso il Kosovo. La regione è abitata da una popolazione albanese o jugoslava di origine albanese e di religione musulmana, che cadrà sotto il controllo tedesco. Sono a circa sei chilometri da Pristina che invece è sotto controllo italiano.

Il territorio di Pristina, che era serbo, diventa  albanese con gli italiani. 

Raggiungono Pristina. Qui, ricorda Michel, c’erano molti ebrei di Belgrado. Lui, la madre e la sorella vengono raccolti in una scuola dove devono vivere in circa 120 persone. Loro tre parlano italiano per farsi credere tali. In ciò Michel è favorito dalla facilità con cui impara le lingue. Durante questo periodo alcuni membri della Comunità ebraica visitano i profughi e forniscono loro cibo e soccorso. 

Per caso un giorno, mentre gioca con un cagnolino di proprietà della famiglia serba di un fotografo, Michel incontra degli ufficiali italiani che si interessano al cane. Dopodiché il ragazzo parla loro della propria famiglia. Attraverso tale contatto con gli ufficiali, si stabilisce un buon rapporto con il colonnello italiano Morisco (o Moricco) che viene a conoscere la loro identità ebraica e li protegge.  

Passano alcuni mesi, finché avviene un fatto drammatico. Secondo Michel è il 17 maggio 1942. Tutto il gruppo formato da 120 persone è incarcerato dagli italiani in una prigione di Pristina. Non si sa cosa può accadere, nessuno viene a visitarli, neppure i membri della Comunità ebraica. Il terzo giorno arriva l’ordine di formare due liste di sessanta persone ciascuna, in vista della partenza. Si sente dire che sono destinati all’Albania. Per gli Abinum accade qualcosa, il comandante dei carabinieri, che li conosce e sa benissimo che sono ebrei come gli altri, rivolge queste precise parole alla madre di Michel: “Signora Laura, lei non va in questo convoglio, andrà nel prossimo”. La gente viene tradotta alla stazione ferroviaria dentro camion tedeschi e spinta sui vagoni. Si saprà che all’ultima ora le milizie italiane avevano ricevuto l’ordine di ritiro delle persone.

Non è chiaro dal racconto quanti siano stati effettivamente deportati. 

Dagli studi dello storico Michele Sarfatti emerge con certezza da un lato che l'arresto e l'incarcerazione del gruppo avvengono il 17 marzo e non il 17 maggio '42, dall'altro che all'inizio ci fu la consegna ai tedeschi dei soli 'ebrei stranieri giunti dalla Serbia' presenti a Pristina (51 persone). Dunque, se gli Abinum-Zaraya avevano la falsa identità di cittadini italiani, non furono inseriti nella consegna per tale ragione. Dopo il primo gruppo, precisa Sarfatti, l'intervento delle autorità collaborazioniste albanesi bloccò e impedì la consegna del secondo gruppo di 'ebrei stranieri'. Costoro assieme ai maschi adulti ebrei pristinesi vennero fermati, trattenuti per un po' in carcere e poi trasferiti nell'Albania 'storica', in campi o località di internamento. Ecco perché in quelle settimane gli ebrei pristinesi non potevano assistere i carcerati: se maschi erano in carcere a loro volta, se femmine assistevano i loro mariti.

Gli Abinum, riprende Michel, restano in carcere fino a luglio ’42. Non vengono maltrattati, ma è terribile non sapere nulla, ignorare cosa accadrà.  Poi sono tradotti nel campo di concetramento albanese di Shijak. 

Il padre Isacco (Ica) intanto era stato deportato in Italia da Spalato (Split) come prigioniero civile di guerra. Secondo Michel, la ragione della deportazione fu un attentato compiuto contro un complesso musicale militare italiano, avvenuto a Split: una bomba aveva ferito e/o ucciso 6 persone.  

Da Castellamonte, Torino-Aosta, dov'era stato destinato, Ica cercava di tenere corrispondenza con i suoi familiari. Per un periodo i contatti si interrompono del tutto. L'internato viene anche ricoverato in ospedale. A un certo punto il tramite diventa il colonnello Morisco (Moricco) e poi altri intendenti da lui incaricati quando fu trasferito in Montenegro. Così Ica viene a sapere sia che i suoi sono in carcere a Pristina, sia che tutti gli ebrei di Pristina vengono deportati. Allora cade nella disperazione e si ammala.  

Durante la permanenza a Castellamonte ha cercato di farsi aiutare da un avvocato a contattare la propria famiglia, ottenendo solo un rifiuto: è doppiamente nemico essendo jugoslavo ed ebreo. Un giorno, mentre si prepara da solo il pasto, visto che è molto delicato e ha problemi di salute, succede che conosca per caso un uomo dall’aspetto modesto e dimesso che, come tanti, aveva lasciato la propria città - Michel ritiene che venisse da Torino - a causa dei bombardamenti. Gli esterna le sue ansie e la preoccupazione per la famiglia. Allora, con sua grande sorpresa, l’altro gli dice di essere imparentato con la famiglia reale italiana, i Savoia, e di avere una congiunta in Albania. Abinum lo chiama “Duca di Ancona”. 

In Albania Isacco ha un parente, Vittorio (forse il fratello), così tramite questo contatto, la persona che gli si è rivelata come congiunto dei Savoia ritrova Laura e i figli. Questi ultimi ora sono internati a Shijak, pure in Albania. Qui, racconta Michel, si trovavano bene in quanto la popolazione albanese era molto cordiale con gli ebrei. La permanenza a Shijak dura qualche mese.  

Con l’aiuto e su suggerimento del Duca, lca predispone documenti e fotografie per il Ministero dell’Interno e infine ottiene di poter lasciare il Nord per la provincia di Pesaro dove può riunirsi alla famiglia. Il paese a cui sono destinati è Sant’Angelo in Vado. 

La traversata dell'Adriatico di Laura con i due figli avviene sulla nave "Città di Catania" che, pochi mesi dopo (agosto), sarà colpita da un sommergibile inglese e affondata. 

Verifichiamo che si conteranno oltre 250 vittime, di cui più di 200 passeggeri e 49 membri dell'equipaggio. L'incrociatore faceva servizio da Durazzo a Brindisi e viceversa, anche per trasporto di truppe per conto del Ministero della Guerra. Dunque lo sbarco degli Abinum/Zaraya - anche in questo caso risparmiati dalla sorte - dev'essere avvenuto a Brindisi. 

Michel sottolinea che il 2 febbraio ’43 rivedono il babbo a Sant'Angelo in Vado dopo quasi due anni di separazione. (La data di arrivo riferita coincide con i documenti scritti.)  In paese si trovano abbastanza bene. Michel può studiare in un collegio italiano dove sanno benissimo che appartiene a famiglia di religione ebraica. 

La madre Laura decide di scrivere al Duca di Ancona, vorrebbe andare da lui per ringraziarlo personalmente di averli aiutati a riunirsi. Lui le risponde che non è prudente muoversi a causa della guerra, ma il particolare di rilievo è che la lettera utilizzata del duca è su carta intestata della Casa reale, di conseguenza tutti in paese vengono a saperlo: la famiglia Abinum cresce nella considerazione generale. Finché non arriva l’armistizio dell’8 settembre ’43 che cambia il quadro politico italiano!  

Ma ecco che la situazione precipita. Non molto tempo dopo l’armistizio, il padre si presenta in collegio per portare via il giovane figlio, gli dice che bisogna andarsene al più presto. Michel afferma che ciò avviene nell'ottobre del ’43.  

A noi risulta che la fuga sia avvenuta più tardi, il 2 dicembre ’43, nell’imminenza dell’arresto generalizzato degli ebrei disposto dal ministro di Salò, Buffarini Guidi. Inoltre è certo che per tutto il mese di ottobre gli Abinum sono a Sant'Angelo, in quanto esiste una corrispondenza scritta e datata. 

Ad avvisare il padre di un pericolo imminente, aggiunge Michel, fu un cittadino oppositore del fascismo, un comunista. Questa persona che li invitava a eclissarsi in 15 minuti, aveva procurato anche le biciclette per fuggire. Si unisce loro una coppia, austriaca lei, ebreo lui. Si tratta di Brankovic, definito persona “molto simpatica”. Secondo Michel era un ingegnere navale. 

Il nome ci è noto, anche Giuseppe Brankovic era internato a Sant’Angelo in Vado. Nei documenti che lo riguardano troviamo scritto che era un industriale, ma anche un commerciante di legnami e proprietario di un hotel nelle vicinanze di Fiume.  

Michel ricorda una fuga “rocambolesca”. Raggiungono Urbania, poi prendono un treno e si allontanano, non specifica esattamente dove. Salgono sulle montagne e si uniscono a partigiani “guerriglieri” di nazionalità jugoslava, ma anche greca (forse montenegrina) e in misura minore italiana. Restano con i partigiani per diversi mesi, lavorando in vario modo. Non si specifica se i Brankovic siano con loro anche in questo frangente. 

Essendo abituati a vivere in zone aspre e montuose, gli jugoslavi e i "greci" si rivelano molto più abili e sicuri degli italiani, a giudizio di Michel. Lui, la mamma e la sorella vivono ancora mesi difficili e travagliati. Gli attacchi tedeschi sulle strade sono continui e così pure le azioni partigiane. Gli Abinum rimangono in questa condizione di latitanza fino a marzo/aprile ’44. 

Presto, sulla base della Convenzione internazionale di Ginevra, si tentano azioni per favorire il rimpatrio dei profughi ex jugoslavi e greci. Viene nominato un italiano delegato per il Centro Italia. Anche la Croce Rossa si muove in tal senso. A Perugia si trova il signor Vidati (?), già ministro jugoslavo, amico di uno zio di Michel che si era convertito al cristianesimo ortodosso e unito ai serbi, Zac Abinum, che assume il nome di Zarco Jelkic.  

Vidati viene a sapere da Zarco delle loro peripezie e li aiuta a ottenere ancora una volta documenti falsi con i quali possono raggiungere Perugia e vivere in un appartamento come rifugiati di guerra. Le forze tedesche intanto fanno razzie nel territorio circostante, portano via tutto, mucche, animali da cortile e tutto ciò che trovano, pertanto la gente cerca di nascondere i propri beni. Pochi giorni prima della liberazione della città da parte inglese (20 giugno ’44), i militi germanici assaltano anche la fabbrica della Perugina e caricano sui loro mezzi casse piene di cioccolatini. Michel non può permetterlo! Non racconta come, ma afferma con soddisfazione di essere riuscito a sottrarre ai germanici una cassa intera di dolciumi.  

Durante il passaggio del fronte, gli Abinum vivono per tre giorni nascosti in un tunnel tra Perugia e Foligno. La Liberazione è una festa generale, indimenticabile, la gente riporta alla luce tutto ciò che sembrava sparito ma in realtà era nascosto. 

Liberi dall’ 8 maggio '45, gli Abinum restano a Perugia fino al 3 luglio seguente, poi si spostano a Roma dove vivono fino al 31 dicembre 1947. Solo allora sapranno della tragica enormità della deportazione e dello sterminio. 

A quel punto devono decidere dove andare a vivere. Unico parente sopravvissuto di parte materna è un nipote di Laura Zaraya che abita in Francia, la cui madre è stata uccisa ad Auschwitz. Vorrebbero raggiungere il congiunto ma non è facile ottenere il visto, dal momento che non risiedevano in Francia prima della guerra. Alla fine, non si capisce bene come, si fanno chiamare Abinum Jelkic e ci riescono.  

In occasione della guerra arabo-israeliana, Michel parte per Israele e vi resta nel biennio 1948/’49. Diventa meccanico. Poi raggiunge i suoi familiari. I genitori in Francia non riescono a trovare lavoro, inoltre il padre non si trova bene perché non parla la lingua, così tutti quanti decidono di lasciare la Francia per la Bolivia. S’imbracano nel novembre 1950 alle Bocche del Rodano, Marsiglia, e approdano a Cochabamba. Di qui si sposteranno definitivamente nel 1953 per San Paolo del Brasile. Michel lavorerà come rappresentante elettrotecnico.  

Quanto al riferimento al Duca di Ancona che li aiutò nel 1942 a Castellamonte, verifichiamo che a portare tale titolo è Eugenio del ramo dei Savoia-Genova. La congiuta "dell'Albania" di cui parlava era forse Elena del Montenegro. Tutti i membri della famiglia Savoia-Genova condussero vita molto ritirata. Dei fratelli maschi solamente lui (nato a Torino nel 1906) ebbe un discendente, per la precisione una figlia, nata a Roma nel giugno del '43. Essendo la discendenza femminile, il titolo si estinse nel 1996, alla morte di Eugenio. 

Coincidenza singolare, dopo la guerra anche Eugenio era emigrato in Brasile dove aveva avviato un'azienda agraria. E morì a San Paolo come Ica Abinum (nel 1977), a breve distanza di tempo. 

L’intervista a Michel Abinum conservata presso USC Shoah Fondation Institute, Visual History Archive, che abbiamo ascoltato in lingua portoghese presso l’ICBSA di Roma, è corredata da fotografie - presentate e datate dallo stesso protagonista - che ci hanno permesso di conoscere i volti dei componenti la famiglia.

Sulla vicenda di Pristina si può vedere lo studio di Michele Sarfatti del 2010. 

 

 

 

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