Ebrei internati in Provincia di Pesaro

Internamenti in provincia di Pesaro

 

Il 1° giugno 1940 il capo della provincia invia al Ministero dell’Interno l’elenco dei comuni in cui “potranno essere internati stranieri o connazionali che debbono essere allontanati dalle loro abituali residenze”. La lista comprende dodici sedi, per ognuna delle quali è indicato il numero di internati compatibili, da un minimo di cinque a un massimo di quindici. Questi i loro nomi: Apecchio, Borgopace, Macerata Feltria, Mercatino Conca, Pennabilli, Piandimeleto, Piobbico, Sant’Agata Feltria, Sant’Angelo in Vado, San Leo, Sassocorvaro e Tavoleto. In luglio viene aggiunto il comune di Fano, dopodiché il numero non varia fino a dicembre ’41 quando sarà incluso Fermignano.

Nel ’42 la rosa si allarga alle altre sette sedi seguenti: Colbordolo, Isola del Piano, Montebaroccio (o Mombaroccio), Saltara, San Costanzo, Sant’Ippolito, Urbania.

Tale lista di ventun paesi resterà tale per tutto il ’43, mentre nell’ultimo biennio di guerra per far fronte ai crescenti arrivi e al movimento massiccio degli sfollati, saranno predisposti altri cinque centri – Cagli, Cantiano, Mondavio, Pergola e Sant’Angelo in Lizzola – per un totale di ventisei località disponibili.

I primi cittadini internati in Provincia di Pesaro sono i fratelli Leardo e Lilio Saralvo di Ferrara, inviati a Sant’Angelo in Vado il 28 giugno ‘40. Alla fine, nei 26 comuni indicati vengono segregate 257 persone. Tale numero è suscettibile di rettifiche, sia perché al suo interno sono presenti casi incerti dove la determinazione di appartenenza razziale non è univoca nelle fonti consultate, sia per nominativi che possono essere sfuggiti.

Seppure accomunati da un analogo destino, gli ebrei stranieri internati in Provincia di Pesaro appartengono a tipologie diverse: di emigrati prima, di perseguitati poi. Molti di loro erano in fuga dai paesi d’origine per sottrarsi alle persecuzioni razziali, altri si trovavano in Italia per ragioni di studio, di lavoro o di turismo. Una componente particolare è quella dei medici, con una significativa presenza nel nostro territorio. Si tratta di cittadini ungheresi o polacchi che hanno conseguito laurea e perfezionamento in Italia a causa delle restrizioni presenti nelle loro università nei confronti degli ebrei, ai quali vengono riservate quote d’iscrizione di gran lunga inferiori a quelle degli “ariani”. 

Il quadro complessivo degli ebrei internati è un primo risultato della nostra ricerca. Di alcuni di essi presso l’Archivio di Stato di Pesaro non c’è fascicolo ma esistono riferimenti in altre ricerche, pubblicazioni e fonti, compresi gli archivi comunali. Laddove si disponeva di un ricco materiale si è abbozzata una biografia più dettagliata, in altri casi ci si è limitati a pochi cenni. Oltre agli studi già disponibili sul tema, e di cui si fa menzione nelle fonti pubblicate, per gli ebrei stranieri si è fatto costante riferimento ai lavori di Anna Pizzuti e di Francesca Cappella risultanti nei siti APz e CDEC. Si tenga presente che nella lista di Pizzuti gli internati nel nostro territorio sono individuabili sia alla voce “Pesaro” che a quella “Pesaro/Urbino”.

Gli italiani verranno liberati in vari momenti. I proscioglimenti iniziano fin dal ’41 per “atto di clemenza del Duce” con motivazioni prevalentemente di ordine sanitario o famigliare. Dopo il 25 luglio, con le misure del Governo Badoglio, la maggioranza di essi ottiene la revoca, anche se le leggi razziali restano in vigore. Degli stranieri ci si ricorderà con un provvedimento tardivo, quello del 10 settembre ’43, ma ormai l’esercito tedesco ha occupato il territorio. In Provincia di Pesaro a questa data sono un centinaio gli ebrei stranieri ancora presenti dopo movimenti in entrata e in uscita da altre province.

Nei giorni successivi all’armistizio si vivono momenti di grande incertezza e sbandamento. Nuovi arrivi si profilano, in prevalenza fuggiaschi italiani e stranieri che non riescono a raggiungere il Sud. I tentativi di fuga scattano anche nella nostra provincia e il fenomeno diventa più evidente ai primi di dicembre ’43 non appena la notizia dell’ordine di cattura generalizzato per la deportazione viene diffusa attraverso la radio. Seppure controllata, questa infatti riesce ancora a informare.

In quelle ore molti ebrei si rendono irreperibili, spesso con l’aiuto di cittadini del posto, di religiosi o di partigiani presenti nei dintorni, una rete più fitta di quanto non sospettino le autorità e le forze dell’ordine. La corsa a volte si ferma subito e ne consegue un nuovo internamento, magari nel paese vicino.

E qui è doverosa una riflessione sulla condotta delle autorità provinciali di Pesaro, questura e prefettura. Come si legge in atti del ’42 riportati anche da Klaus Voigt, inizialmente il capo della provincia si tutela rispetto a possibili rilievi del Ministero dell’Interno facendo partecipe il partito fascista della sorveglianza sugli internati. Poi quando viene diramato l’ordine di cattura per la deportazione,  la strategia adottata è quella di affidare  la sorte – teorica – degli ebrei fermati, al medico: i reclusi vengono sottoposti a visita fiscale per decidere se siano o meno idonei al campo di concentramento.

Nel caso di coppie, spesso il  dottor Marco De Marco  riconosce la non idoneità ad almeno un componente familiare in modo da giustificare la scarcerazione dell’altro per l’assistenza al congiunto, e allora al carcere segue l’internamento di entrambi nel precedente comune o in altra sede. Se si tratta di singoli, la diagnosi frequentemente è favorevole al perseguitato, anche se non mancano drammatici esempi di accanimento.

Questo sembra di poter ricavare dall’esame dei casi, a volte purtroppo lacunosi. E non vanno dimenticate vicende inquietanti di arresti – a volte persino in ospedale – che si concludono tragicamente, una per tutte la strage di Forlì del settembre ’44, per la quale sicuramente esiste una responsabilità anche da parte italiana.

Infine, la creazione di un campo di concentramento in provincia, come da applicazione dell’ordinanza di Buffarini Guidi, fallisce per mancanza di mezzi finanziari; il progetto riguardava “Villa Labor” di Pugliano.